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“Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”

Giovanni Paolo II

“15-minute city”, ovvero la “città da 15 minuti”. È il progetto, proposto dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno, docente alla Sorbona, e reso popolare nel 2020 dal sindaco di Parigi, Anne Hidalgo. L’idea è suggestiva: rendere le grandi città più vivibili, suddividendole in distretti al cui interno le persone troveranno tutto ciò “di cui hanno bisogno”. Il progetto si inserisce all’interno del più ambio concetto di “smart city”, la “città intelligente” del futuro nella quale la digitalizzazione e l’uso delle moderne tecnologie, dall’intelligenza artificiale alle ICT (Tecnologie dell’informazione e della comunicazione), creeranno le condizioni per ridurre gli spostamenti fisici delle persone. All’interno del proprio quartiere ci si potrà muovere a piedi, in bicicletta, con mezzi pubblici o, all’occorrenza, con mezzi elettrici in sharing. Gli spostamenti al di fuori del proprio distretto con mezzi privati non elettrici saranno sottoposti a monitoraggio, e possibili limitazioni. Il progetto è in fase di sperimentazione a Oxford, e ha sollevato forti proteste popolari: il limite massimo agli spostamenti è stato fissato a 100 uscite annuali dal proprio distretto, monitorate con telecamere e soggetto a sanzioni.
Il tema è: chi definisce ciò “di cui le persone hanno bisogno”, chi definisce i distretti e i limiti di spostamento? Non vi è il rischio che ciò che nasce come un diritto naturale diventi un “permesso”, concesso, modulato o ritirato a discrezione dell’autorità pubblica? Dai lockdown sanitari ai lockdown climatici? È presto per dirlo, ma preoccupa il giro mentale soggiacente a questi progetti, non a caso in forte accelerazione post-CoViD e oggetto di molte discussioni a Davos. Un motivo in più per preoccuparsi…

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